Tutti siamo saliti almeno una volta a bordo di una delle sue auto. Che si tratti della prima Golf o della Panda del 1980, della Punto del ’93 o della Grande Punto del decennio successivo, dell’Alfasud o della Passat - e qui ci fermiamo perché l’elenco è sterminato, con oltre 100 concept progettati e più di 200 vetture entrate in produzione –, sono talmente tante le auto nate dalla matita di Giorgetto Giugiaro che è improbabile, anche per chi usa saltuariamente la macchina, non avere mai avuto a che fare con una di esse. Giorgetto Giugiaro, non a caso, è il car designer che più di ogni altro ha determinato lo stile dell’automobile moderna. Tra poche settimane, il 7 agosto, compirà 75 anni. E ha accettato di “raccontarsi” per alVolante.it. Ci accoglie con la vivacità di un ragazzo negli uffici inondati di luce dell’Italdesign Giugiaro, 900 dipendenti, fondata 45 anni fa con Aldo Mantovani dopo una breve esperienza allo Stile Fiat e i successi alla Bertone (sue, tra le altre, l’Alfa Romeo Giulia GT e la Fiat 850 Spider) e alla Ghia (Maserati Ghibli e De Tomaso Mangusta). Per festeggiare la ricorrenza, all’ultimo Salone di Ginevra l’Italdesign Giugiaro ha presentato la Parcour. Cominciamo la nostra intervista proprio da questa due posti a trazione integrale che è a metà strada tra una Gt e una suv.
La Parcour è stata presentata al Salone di Ginevra del 2013.
Come mai l’avete chiamata così?
“È un progetto che ha curato da vicino mio figlio Fabrizio, e nel nome richiama una disciplina sportiva praticata inizialmente nelle città francesi e poi diffusasi anche in altri paesi. Consiste nel superare ostacoli di ogni genere che l’atleta incontra lungo un percorso stabilito, barriere architettoniche, cancellate, ringhiere e così via. Chi vi si dedica dev’essere inarrestabile, proprio come la nostra auto, una sportiva realizzata in alluminio e fibra di carbonio e dotata di un sistema elettronico che modifica l’altezza da terra e l’assetto”.
La Parcour monta un V10 Lamborghini da 550 cavalli e sembra disegnata dal vento. Lei ritiene che ci sia ancora spazio per delle auto così “emozionali” in tempi di crisi economica, caro-carburanti e con i limiti di velocità che si fanno sempre più stringenti?
“L’uomo ha bisogno di sognare, è un desiderio che emerge un po’ in tutti i campi, anche in quello dell’auto e nonostante il contesto negativo che lei ha descritto. Noi, con queste auto che esponiamo ai Saloni, cerchiamo di esaudire proprio questo desiderio, che esisterà sempre”.
Dal 2010, Italdesign Giugiaro fa parte della galassia Volkswagen. I tedeschi vi hanno lasciato carta bianca nella realizzazione del prototipo?
“Assolutamente sì. Non l’hanno commissionata, né ci hanno indirizzato nella tipologia di veicolo da seguire. È un’Italdesign Giugiaro a tutti gli effetti e, volutamente, non esprime l’identità di nessuno dei marchi Volkswagen. Possiede una forte ‘carica emotiva’, indipendentemente dal brand al quale potrebbe essere destinata, e questo è importante. L’argomento non è mai stato discusso con i tedeschi, ma dalla Parcour potrebbe essere derivata senza difficoltà una Lamborghini oppure un’Audi. Con le inevitabili modifiche, naturalmente, perché pur avendo studiato anche l’ingegnerizzazione, come facciamo per tutti i nostri prototipi, è improbabile che un’auto come questa possa entrare in produzione senza gli adattamenti imposti dall’appartenza a un certo brand piuttosto che a un altro. È un nostro concept, a disposizione del gruppo Volkswagen se vorrà usarlo. Sappiamo che a Wolfsburg è piaciuto”.
Come si lavora con i tedeschi?
“C’è grande organizzazione, un forte senso della disciplina, quel rispetto dei processi e dei tempi che consente di lavorare al meglio. In generale, noi italiani siamo più… effervescenti. Ma i tedeschi, con la loro mentalità, riescono a indirizzare bene la nostra fantasia. Italdesign Giugiaro è uno dei centri di progettazione del gruppo e mettiamo in campo non solo la nostra creatività nello stile, ma anche qualità esecutiva e competenze ingegneristiche. Ci apprezzano per la creatività e per la rapidità di esecuzione. Ci siamo integrati al meglio e lavoriamo in maniera trasversale per tutti i marchi. Per quanto riguarda lo stile, veniamo posti in concorrenza con gli altri centri di design della Volkswagen, sui temi più diversi. L’obiettivo di Walter de Silva, il direttore del design del gruppo, è di ottenere i risultati migliori e la strada non può che essere questa”.
Un giovane Giugiaro con la prima Golf, da lui disegnata nel 1974.
In fondo, è quanto accadeva prima di entrare nel gruppo tedesco…
“Da un certo punto di vista è così, solo che prima avevamo a che fare con il mondo, quasi tutti i costruttori sono stati nostri clienti. Alcuni volevano uno ‘stile Giugiaro’, più che uno stile della casa automobilistica. Oggi facciamo parte di una squadra, le nostre proposte vengono valutate assieme a quelle degli altri centri di design del gruppo. Ci chiedono, talvolta, d’intervenire su un progetto altrui, e lo stesso capita con i nostri lavori. Poi, il top management fa le sue scelte. A volte si vince e a volte si perde. Una volta approvato, il progetto passa al brand – Audi, Skoda, Seat, la stessa Volkswagen – che lo porta fino alla produzione di serie”.
Il top management, cioè Martin Winterkorn…
“L’amministratore delegato della Volkswagen è un profondo conoscitore del prodotto e dei processi di progettazione e di produzione. Poi c’è Ferdinand Piech, il presidente del consiglio di sorveglianza, altro tecnico di grande prestigio e di straordinaria esperienza, che viene sempre informato e dà la sua ‘benedizione’”.
E di Walter de Silva che cosa ci dice?
“È l’uomo che coordina tutti i centri di design del gruppo, ha la fiducia della presidenza e proprio per questo non presenterà mai al top management un progetto in cui non crede. Con lui vado molto d’accordo, abbiamo le stesse esperienze e le stesse sensibilità”.
Sembra di capire che da una realtà così complessa e articolata sarà difficile che possa scaturire un’auto “firmata Giugiaro”.
“Glielo dico sempre, fatemi fare la Golf VIII… In fondo la prima l’ho disegnata io. Scherzo, naturalmente. No, nel gruppo Volkswagen una soluzione come questa non è contemplata, le automobili sono frutto di un lavoro d’equipe a tutti i livelli”.
In generale, che opinione ha sul design attuale?
“Il design va verso una qualità crescente ed è sempre più influenzato dalle problematiche ambientali e dalla necessità di migliorare la sicurezza. È un mondo in continua trasformazione e sono convinto stia andando incontro a una maturazione. Alla lunga, anche i designer si renderanno conto che non è poi così premiante guidare una macchina sportiveggiante se poi con un furgone si hanno le stesse prestazioni. E questo anche se oggi, contando sulla voglia di distinguersi che anima tanti automobilisti, ci s’inventa delle auto dal look esageratamente sportivo. Per strada si vedono citycar dalle forme molto aggressive”.
La Nazca C2 fu realizzata per la BMW nel 1991.
Lo si nota anche dalle dimensioni delle ruote, sempre più grandi.
“Questo mi fa piacere, le ruote costituiscono un elemento fondamentale nella percezione dell’automobile. Una ruota di grandi dimensioni alleggerisce l’impatto visivo e rende più dinamica la carrozzeria. Troppo a lungo, nel progettarle abbiamo fatto i conti solo con esigenze funzionali e di costo. Se mi si passa il paragone, le ruote per un’auto sono un po’ come gli occhi per una donna. Se sono grandi, e proporzionate, valorizzano l’insieme. Naturalmente, se si è in cerca di un’immagine sportiva, è inutile utilizzare dei cerchi di grande diametro senza collocarli ‘a filo’ del passaggio ruota, come, invece, ci chiede la Volkswagen. Se le ruote non sono a filo della carrozzeria, l’impatto visivo cambia completamente, la carrozzeria perde dinamismo. Chi monta le ruote un po’ all’interno lo fa per garantirsi un po’ di spazio per alloggiare i cerchi, più grandi, riservati alle versioni di punta o quelli opzionali di maggiori dimensioni. Alla Volkswagen questo spazio lo ricavano all’interno dei passaruota. Con una resa migliore per l’occhio”.
Le forme sempre più complesse delle auto di oggi si devono anche alle nuove tecnologie?
“Dopo le linee tese degli anni 70 e quelle arrotondate con effetto-pallone dei decenni successivi, oggi i car designer riescono a combinare sempre più queste due esperienze grazie alla progettazione assistita e alle tecnologie di produzione. In questo, alla Volkswagen sono molto avanti, le loro attrezzature consentono di lavorare le lamiere in modo da ricavare degli spigoli laddove in passato non si sarebbe riusciti a ottenerli. Col risultato di avere quella precisione delle linee, quella qualità e quel rigore formale che tutti riconoscono a queste auto”.
Che cosa pensa dei giovani designer?
“Escono dalle scuole con una gran voglia di cambiare a la realtà, anche a costo di rischiare degli scivoloni sul piano del buon gusto. E, infatti, guardando i loro progetti, se ne trovano alcuni davvero barocchi. I giovani sono molto creativi, ma non hanno la percezione di quanto un progetto sia concretamente attuabile. Ci arrivano dopo anni di lavoro nel mondo della progettazione. Quando escono dalle scuole non sanno neanche come si fa uno stampo, non sanno nulla di saldatura, assemblaggio, costo del prodotto. Entrano nelle aziende e la loro creatività si confronta con la cultura degli ingegneri che, invece, conoscono perfettamente i processi, ma tendono a non condividere questo loro patrimonio di conoscenze. In fondo è una questione di potere. Si è mai visto un designer al vertice di una casa automobilistica? Ci arrivano ingegneri, uomini di marketing e di finanza, economisti. Ma i designer no. Che ricordi, è capitato soltanto a Peter Schreyer, che da qualche mese è il presidente della Kia”.
Chi decide, nelle case automobilistiche, preferisce lasciare ai designer la creatività…
“Sì, i designer si preferisce lasciarli nel loro Olimpo, anziché farli avvicinare alla vera conoscenza tecnica. Immaginate, invece, un ingegnere gestito da un designer con una robusta base tecnica. Sarebbe costretto a trovare quelle soluzioni che spesso vengono bocciate. Che rivoluzione! Lo dico per esperienza, perché nella mia carriera ho dovuto tantissime volte trovarle io, le soluzioni che avrebbero garantito la fattibilità di un progetto, al punto che sono diventato più ingegnere degli ingegneri. Dovevo difendere le mie idee. L’ho vissuta sulla mia pelle, questa contraddizione tra il potere della cultura ingegneristica e la creatività dei designer, da quando, a 17 anni, entrai all’ufficio stile della Fiat. Sono stato costretto a crearmi un enorme bagaglio di esperienza per arrivare a realizzare le auto come volevo io”.
Il prototipo VW Tex risale al 2011.
Ma i giovani designer hanno davvero voglia di costruirsi questa esperienza?
“No, perché costringe a un impegno che va al di là della loro immaginazione. Il design richiede umiltà e precisione, per certi versi è un po’ come fare il manovale. Non è facile trovare questo approccio in chi magari si è laureato in architettura, ha seguito dei corsi di design e si trova a immaginare un prodotto industriale complesso come l’automobile. Fare il designer in modo logico, cioè con cognizione di causa, costa fatica. Il design, del resto, non è soltanto stile, anche se il mondo della comunicazione oggi pone l’accento soprattutto su questo aspetto e chiede prodotti emozionanti. Il rischio, per chi non ha una cultura adeguata, è di disegnare dei prodotti brutti”.
Lo sviluppo della componentistica vi concede maggiore libertà formale? Mi riferisco, per esempio, all’uso dei led nei fari.
“Per sfruttare al meglio questa evoluzione rapidissima e continua, bisogna conoscerla. La cura per i dettagli impone ai designer un’ulteriore specializzazione, anche perché oggi il modello di un gruppo ottico arriva a costare tantissimo. Certi componenti sono gioia per gli occhi. La stessa attenzione la richiedono le maniglie, oggi scegliere una maniglia è difficile, ce ne sono talmente tante… Per non parlare, in generale, degli interni, importanti perché è qui che gli automobilisti trascorrono gran parte del loro tempo e che implicano problematiche complesse quali la sicurezza, l’ergonomia, i materiali, i colori, la necessaria coerenza con il design esterno”.
Tutti ricordiamo la plancia a forma di tasca della prima Panda, una delle tante soluzioni innovative di quella vettura, ripresa nel modello attuale. Dà più soddisfazione disegnare una citycar come quella, con le tante complicazioni dovute alla necessità di sfruttare al meglio il poco spazio disponibile, o una supercar?
“Quando il designer lavora su una sportiva si diverte di più, dà sfogo alla passione. Ma ha il suo fascino anche la sfida intellettuale di progettare un’auto poco ingombrante, poco costosa, poco inquinante, magari destinata all’uso pubblico. Ricordo ancora la Biga, una citycar razionale che abbiamo presentato nel 1992. Una specie di cubo, robusto e leggero, fatto per muoversi nei centri storici delle nostre città. Due metri di lunghezza, l’accesso a bordo consentito, anche ai portatori di handicap, dal portellone, il motore ibrido. Ecco, penso che un design attento anche agli aspetti sociali sia estremamente attuale e molto appagante per il progettista”.
Nel 1992 Giugiaro progetta la Biga, concept di citycar molto avanti per i tempi.
Un’ultima domanda. Oltre alle automobili e al design, che cosa appassiona Giorgetto Giugiaro?
“Il trial. È una sfida continua fatta non di velocità ma di equilibrio, si sta in sella e a contatto con la natura. Nelle mie escursioni alterno due motociclette, una Jotagas, innovativa e notevole dal punto di vista estetico, e una Sherco, che uso da diversi anni ed è più sperimentata. Pratico questa disciplina da tempo, mi dà un grande senso di libertà.”.