CORRERE PER IL FUTURO - “Riprendere lo spirito originario del motorsport” esordisce così Sergio Savaresi (nella foto qui sotto), professore ordinario del Politecnico di Milano e responsabile e fondatore di Move, il gruppo di ricerca dell’ateneo specializzato nei sistemi di controllo e automazione per veicoli - quando gli chiediamo qual è lo scopo dell’Indy Autonomous Challenge. Ovvero, il campionato monomarca a guida autonoma al quale il team del docente italiano sta partecipando con grande successo da più di tre anni. Utilizzare le corse come palestra per accelerare lo sviluppo di nuove tecnologie: così è sempre stato nell’industria automobilistica e così vale ancora oggi anche quando si parla di guida autonoma.
DALL’AMERICA ALL’EUROPA - Quando si riuscirà effettivamente a muoversi da un punto A a un punto B senza alcun intervento del pilota (in maniera del tutto affidabile e sicura) non è ancora certo; ma sicuramente se ci arriveremo in tempi non troppo lontani sarà anche merito di questi ricercatori che con delle monoposto arricchite di computer e sensori si sono sfidati prima sui grandi ovali americani e, a partire dallo scorso giugno in occasione del Milano Monza Motorshow, per la prima volta hanno affrontato anche un classico tracciato automobilistico fatto di curve e rettilinei.
PARTNER DI PRIM’ORDINE - Una sfida dopo l’altra che ha visto 10 team provenienti dalle migliori università di tutto il mondo battagliare prima per il miglior tempo sul tempo sul giro e poi gareggiare anche uno contro l’altro, portando al limite le conoscenze e le tecnologie oggi disponibili per i veicoli privi di pilota. Un progetto, che come ci racconta il Professor Savaresi, vede la partecipazione di numerosi partner tecnici come Dallara che costruisce le monoposto, Bridgestone che fornisce gli pneumatici a tutto il campionato e i produttori degli avanzati sensori che permettono alle vetture di “vedere” e calcolare come muoversi in pista.
Professore, come è nata la Indy Autonomous Challenge e perché il Politecnico di Milano ha deciso di partecipare?
Questa iniziativa nasce nel 2020 per volontà dello Stato americano dell’Indiana che voleva valorizzare la sua lunga storia nel motorsport e attirare talenti e capitali per sviluppare nuove tecnologie del settore automotive. Base di partenza sono vettura da corsa tradizionali, le monoposto Dallara Indy Lights, delle specie di Formula 2 della Formula Indy che sono state trasformate con tantissimo hardware elettronico, quindi sensori, attuatori e computer. Tutte le vetture sono perfettamente identiche: i team non possono fare alcuna modifica all’auto, ma solamente lavorare sulla sua programmazione. La competizione è stata aperta alle università, alla quale è seguita una selezione al simulatore che ha ristretto a dieci il numero di squadre partecipanti.
Questo campionato è molto importante, perché dal punto di vista tecnologico, pensiamo che la rivoluzione nella mobilità dei prossimi 20/30 anni verterà principalmente su tra fattori: l’elettrificazione - che per certi versi è il cambiamento più facile -, il passaggio della mobilità a servizio, ovvero passare da tantissime auto poco usate con tecnologia medio bassa e a molte meno auto, molto più tecnologiche, molto più costose e molto più utilizzate e, infine, la guida autonoma, cioè la tecnologia abilitante alla mobilità a servizio. Infatti, crediamo che il passaggio al car sharing di massa sarà possibile solo quando ci sarà la tecnologia dell’auto autonoma.
Dal punto di vista tecnologico questo è il passaggio più complesso e l’obiettivo della competizione è proprio quello di accelerarne lo sviluppo, riportando un po’ alle origini il concetto di racing. Oggi il motorsport è diventato sostanzialmente intrattenimento. Gran parte delle competizioni sono in ritardo rispetto alle migliori tecnologie - specie negli Stati Uniti - e quindi questo campionato riprende la vera tradizione delle corse, cioè tecnologie non ancora ben sviluppate che vengono portate agli estremi in pista per scovarne i limiti e affinarne il funzionamento.
Quali sono le tecnologie che permettono a queste vetture di girare in pista da sole e di farlo andando così veloce?
Gli elementi fondamentali per la guida autonoma sono ormai consolidati e sono tre: l’hardware, ovvero i sensori, gli attuatori e le unità di calcolo. Per quanto riguarda i sensori, per avere livelli di autonomia più alta, quindi di Livello 3, 4 e 5, quasi tutti concordano che non si può giocare con un set limitato e cioè quello che sembra essere il sogno di Elon Musk di fare tutto con le telecamere. È abbastanza irrealistico pensare di garantire un buon livello di affidabilità e sicurezza così, quindi il pacchetto sensoristico utilizzato in pista è costituito da videocamere, radar, Lidar e Gps con una precisione di localizzazione al centimetro. Per quanto riguarda l’unità di calcolo ne utilizziamo una molto potente: è molto complesso processare tutti questi sensori, specialmente le informazioni inviate dai Lidar. Poi, c’è tutta la parte software, che vuol dire algoritmi. Anche in questo caso si parla di un qualcosa che è già stato standardizzato a livello di struttura con 4 livelli definiti, ovvero la localizzazione, la percezione degli ostacoli, la pianificazione della traiettoria e il controllo della dinamica del veicolo. Tutto questo in pista lo portiamo un po’ più all’estremo. Pensiamo per esempio alla localizzazione: un conto è farlo a 50 km/h, un conto è a 300 km/h, specie se come nel caso della gara di Monza, diverse parti del tracciato presentano importanti buchi nella copertura Gps.
Che cosa ha permesso al team del Politecnico di Milano di primeggiare sugli altri fin dall’inizio?
Dovrebbero dirlo i nostri competitor, però per arrivare a vincere serve che tutto sia fatto molto bene. Basta una lacuna in uno dei quattro livelli citati prima per compromettere l’intera prestazione e avere distacchi enormi nell’ordine anche di un minuto. Non c’è trucco non c’è inganno, bisogna avere un team che copre tutte e quattro le competenze e avere molta organizzazione. Con il tempo abbiamo fatto una progressione graduale e parlando proprio della gara di Monza il singolo problema più importante che abbiamo affrontato non è stato tanto il passare dall’ovale al circuito, quanto piuttosto gestire buchi di copertura del segnale Gps lunghi fino a 500 metri, un qualcosa che negli ovali americani non era mai capitato.
E quando le auto si sfidano tra di loro? Come riescono a raggiungere il limite?
Passare al testa a testa è stato un salto notevole perché lì conta molto la percezione dell’avversario e la pianificazione. Si mettono a rischio due macchine: è impegnativo fare questo tipo di gare e bisogna anche fidarsi molto dell’avversario. Noi siamo in grado di gestire diversi livelli di rischio dell’auto. Più ci si avvicina al limite più aumenta il rischio, perciò a priori decidiamo come affrontare la gara. Non siamo ancora arrivati a un livello di limite vero e proprio, ma sugli ovali americani ci siamo avvicinati molto, arrivando a circa mezzo secondo da quello che sono i migliori tempi che può fare un pilota professionista.
Qual è il futuro della Indy Autonomous Challenge?
Questa competizione è arrivata verso la fase finale: il prossimo anno contiamo di sfidarci in un testa a testa anche in un vero e proprio circuito come Monza, in una doppia sfida in America a Indianapolis e qui in Italia, ricreando in chiave moderna quella che fu la Monzanapolis, ovvero la sfida avvenuta negli Anni ’50 tra i costruttori europei e quelli americani. Più in generale penso che il motorsport autonomo non avrà un futuro lungo, così come lo conosciamo ora: è un inizio, ma dal punto di vista dello spettacolo manca una componente sociale. Non siamo ancora al livello di poter competere con un Leclerc o un Verstappen e per arrivarci ci vorranno un po’ di anni. Ma magari tra un po’ di tempo un campionato come la Formula E potrà dirà ai team di ingaggiare un pilota umano e uno dell’intelligenza artificiale mescolando queste due tipologie di motorsport.