UNA MACCHINA CHE VA “CAPITA” - Con quella sua linea un po naïf che sembra tagliata con l’accetta, non poteva che passare alla storia come il “brutto anatroccolo” dell’Alfa Romeo. Nonostante ciò, comincia a esserci chi va oltre le apparenze, pur continuando a vederci il risultato poco felice di una sventurata alleanza industriale tra due realtà geograficamente lontanissime e agli antipodi per “cultura” di fare automobili. E poi c’è chi, per ragioni storiche o d’affetto, ha imparato ad apprezzarla semplicemente per quel che è. Per rileggere la storia dell’Arna - acronimo che, per chi non lo sapesse, sta per Alfa Romeo Nissan Auto - e scoprirne gli aspetti meno conosciuti, siamo stati al Museo Storico Alfa Romeo, che a questa eterna “incompresa” utilitaria degli anni ’80 con passaporto italo-giapponese la scorsa domenica ha dedicato una bella giornata di approfondimento.
DA “METEORA” A OGGETTO DEL DESIDERIO - Immancabile, prima della conferenza, la parata di rito sul pistino del museo. E qui la prima sorpresa: undici Alfa Romeo Arna una in fila all’altra, forse, le avevano viste solo gli operai in catena di montaggio. Eppure, con nostra grande meraviglia, scopriamo che per un esemplare come nuovo di quella che, a voler farla semplice, è una Nissan Pulsar in versione N10 con l’80% della meccanica dell’Alfasud, oggi in Giappone c’è chi è disposto a sborsare anche più di 20.000 euro. Basta questo per parlare di “rivincita” su una carriera che, a conti fatti e complice un look certamente distante dall’immaginario alfista, ha finito per relegare l’Arna ai margini del mito Alfa Romeo?
C’È CHI NE VA PROPRIO MATTO - Il modo migliore per cercare di capirlo è fare quattro chiacchiere con chi l’Alfa Romeo Arna la porta davvero nel cuore. Nel garage dell’avellinese Eugenio Avitabile (nella foto qui sotto) ce ne sono addirittura sei, inclusa naturalmente la 1.2 SL rosso veneziano del 1986 che, insieme all’amico carrozziere Franco Vinciguerra, l’ha accompagnato ad Arese. È sufficiente un rapido scambio di battute per capire che no, non siamo ai limiti del patologico, bensì di fronte a un rarissimo esempio di pura passione. “Più che per ovvie ragioni geografiche (tra il 1983 e il 1987 l’Arna fu prodotta in uno stabilimento costruito ad hoc a Pratola Serra, una manciata di chilometri a nord di Avellino, ndr), all’Arna mi sono avvicinato per curiosità - esordisce Eugenio -. Ne vidi una una quindicina di anni fa e in me scattò qualcosa. Comunque, checché se ne dica, è una vera Alfa Romeo”, ci assicura lasciandoci il volante della sua beniamina per un piccolo test-drive nel parcheggio del museo.
LA MECCANICA È ALFA QUASI AL 100% - Il rombo accattivante del boxer Alfa è inconfondibile, ed è sempre un gran piacere ascoltarlo a pieni giri. E poi l’Arna è agile e scattante. D’altronde, come ha spiegato nei dettagli nel suo intervento al convegno organizzato dallo staff del Museo Luciano Colle, all’epoca responsabile del progetto dei motori Alfa Romeo, “la meccanica, a partire dai motori, deriva quasi completamente da quella dell’Alfasud, che in quel periodo si stava evolvendo in quella della più moderna Alfa 33”. Macchine entrambe dall’indiscutibile impronta sportiva, seppur più “popolari” rispetto alle coeve sorelle maggiori Giulietta, 75, 90 e Alfetta. “Nella messa a punto dell’Arna non ci furono particolari intoppi, perché di fatto non c’era la necessità di grossi interventi - racconta Colle -: fu sufficiente qualche modifica dei punti d’attacco alla scocca del gruppo motopropulsore (il boxer dell’Alfasud era montato in senso longitudinale, e non trasversale come il motore Nissan, ndr). L’unico vero problema era il comportamento su strada, che era un po’ troppo sovrasterzante: alla fine risolvemmo tutto spostando di 20 millimetri il punto di vertice del triangolo delle sospensioni posteriori, quelle sì, di provenienza Nissan”.
GLI OSTACOLI AL SUCCESSO - Per conferire all’Arna il piacere di guida tipico di un’Alfa Romeo, i tecnici del Biscione lavorarono sui dettagli con un’attenzione maniacale. Al punto da convincere i colleghi giapponesi, per i quali la macchina andava benissimo così, ad aumentare la campanatura delle ruote da 1° a 3°. Il “guaio” è che la stessa dedizione non riguardò gli aspetti più a monte del progetto, che all’Alfa, con un ampliamento della gamma verso il basso, avrebbe dovuto consentire di recuperare le quote di mercato andate progressivamente perdute a partire dagli anni ’70 e alla Nissan forniva il cavallo di Troia ideale per sbarcare in Europa. Sulla carta sembrava un’operazione d’avanguardia, oltre che vantaggiosa per entrambe le parti. Importare la scocca giapponese, almeno in una prima fase di deprezzamento dello Yen, all’Alfa costava molto meno che produrne una ex novo in Italia. Ma c’erano due problemi di fondo, entrambi insormontabili. Da un lato, la fabbrica di Pratola Serra: poco moderna e non automatizzata come avrebbe dovuto essere, fu costruita contro ogni criterio economico, per esclusive ragioni politiche (la Pulsar aveva dimensioni compatibili con le linee di Pomigliano d’Arco, che l’Alfasud da sola non bastava a saturare, ma prevalsero le pressioni della Democrazia Cristiana, alla quale l’Alfa, all’epoca di proprietà statale, non poteva dire di no). Dall’altro, la paura della Fiat, divenuta un vero caso nazionale per effetto della narrativa confezionata da televisioni e giornali, che mettendo piede in Italia la Nissan avrebbe spianato la strada a una vera invasione giapponese del nostro mercato automobilistico (che pure era regolamentato da un’intesa tra il governo giapponese e quello italiano per cui i costruttori di entrambi i paesi si impegnavano a esportare non più dell’1% delle vetture costruite in patria).
NATA IN TEMPO DI CRISI - Non va inoltre dimenticato che l’avventura dell’Arna partì nel pieno di un momento storico di straordinaria difficoltà per l’Alfa Romeo. Sui bilanci dell’azienda pesavano i 154 miliardi investiti per la nuova Alfa 33, mentre ad Arese e a Pomigliano era cominciata la cassa integrazione. “Kilometrissima Alfa divenne ben presto Cassintegratissima Alfa”, ricorda con una punta d’amarezza, a proposito del simpatico slogan di lancio con cui il Biscione poneva l’accento sui bassi costi d’esercizio del nuovo modello, Elvira Ruocco, che all’Alfa ha lavorato per una vita ed è una miniera davvero inesauribile di ricordi e aneddoti. Il risultato fu che il target di 60.000 Arna da produrre annualmente fino al 1993 si rivelò subito un miraggio (la produzione totale si fermò dopo cinque anni ad appena 58.894 unità, così come rimasero tali le buone intenzioni di venderla in Portogallo, Spagna, Francia e Austria. In Inghilterra nel primo anno di produzione ne sarebbero dovute sbarcare 30.000, ma le concessionarie locali dissero basta dopo i primi 700 esemplari. “Dalle filiali del Regno Unito alzarono il telefono e si lamentarono perché l’80% delle macchine non funzionava - racconta in un videomessaggio l’allora responsabile commerciale della Nissan in Europa, Shigamitsu Oka -. Premevi il pedale del freno e si accendeva la luce di cortesia nell’abitacolo, e altre cose di questo genere. Il problema della qualità era evidente e si sommava a quello della mancanza di un’adeguata indagine di mercato pregressa. Per vendere bene l’Arna, in sostanza, si sarebbe dovuta ripensare l’intera organizzazione”.
UN’OCCASIONE MANCATA, NON SOLO PER L’ALFA - Col senno di poi, non c’è dubbio che il fallimento dell’Arna - al netto del suo insuccesso di mercato e dell’avversione che immediatamente si conquistò tra gli alfisti per via del suo stile poco accattivante - sia stato una grande occasione persa dall’industria automobilistica italiana, nonché il perentorio sigillo sulla fine dell’Alfa Romeo come azienda di Stato. L’acquisizione della casa del Biscione da parte del gruppo Fiat, nel 1986, cancellò ogni prospettiva futura per l’Arna. E fu un peccato, perché il progetto era su molti fronti all’avanguardia (l’Arna, vale la pena ricordarlo, fu la prima Alfa dotata di un impianto di ventilazione degno di tal nome, con il ricircolo dell’aria e un ventilatore a quattro velocità), oltre che d’ampio respiro. Sin dai primi disegni era stata prevista una seconda serie, ma anche pratiche versioni con carrozzeria giardinetta e addirittura layout meccanici a trazione integrale. Oggi fa strano anche solo pensarlo, ma un’Arna a ruote rialzate avrebbe consentito all’Alfa di misurarsi con la Mitsubishi Pajero e le altre 4x4 giapponesi di nuova generazione che in Italia cominciarono a diventare di gran moda proprio nella seconda metà degli anni ’80.
E SEI SUBITO ALFISTA - Fuori dal suo tempo e slegata dalle vicende “politiche” che ne hanno segnato la storia, oggi l’Arna respira un’aria nuova. Per vederne così tante tutte insieme, al museo dell’Alfa Ronald Arts, alfista sfegatato, si è messo in viaggio addirittura dall’Olanda: “È bello vedere tutto questo entusiasmo intorno a una macchina finora così poco considerata come l’Arna”. Non può non balzare alla mente un altro slogan famosissimo - quello che recitava: “Arna. E sei subito alfista” - ascoltando la storia di Marco Persico (nella foto qui sotto), che insieme al fratello Andrea ha fondato Alfa Roma, club affiliato al Registro Italiano Alfa Romeo, e nella Capitale ripara Alfa Romeo d’epoca: “Se siamo alfisti a questi livelli è grazie all’Arna - rivela con nostra sorpresa durante la nostra breve chiacchierata a tutta velocità sul pistino con la bianca 1.3 TI di famiglia, originale dal primo all’ultimo bullone -. Papà ne comprò una nel 1985: la ricordo benissimo, era una 1.2 L. Io avevo dodici anni, mio fratello otto. È rimasta in famiglia quattro anni e mi ha permesso di iniziare a fare il mestiere che faccio, perché cominciai a lavorare proprio nell’officina autorizzata Alfa in cui portavamo la macchina a fare i tagliandi. Da allora, in casa nostra, sono entrate solo Alfa…”.
Immagini: Alessandro Vago e Museo Storico Alfa Romeo.