UN MITO NEL MITO - Sarà quel suo sguardo accigliato. Sarà quella sua voglia matta d’asfalto. Sarà quella sua forma che, levigata così, mezza tonda e mezza squadrata, davvero pare disegnata dal vento. Sarà il rombo unico del suo motore: un ringhio tanto forte e struggente da rubarti il cuore al primo colpo d’acceleratore. Sarà che dai cancelli del Portello e di Arese, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento, ne sono uscite più di 570.000, contribuendo a diffondere il mito e a cambiare per sempre le sorti di una fabbrica che è fonte d’orgoglio per il nostro paese e per cui gli appassionati si mettono in viaggio da ogni parte del mondo. È stata una bellissima festa, al Museo Storico Alfa Romeo, quella di ieri per il sessantesimo compleanno dell’Alfa Romeo Giulia. Un’auto che, tra i tanti capolavori del Biscione che hanno solcato le nostre strade e fatto sognare intere generazioni di automobilisti, è probabilmente quella che meglio rappresenta i tratti più irrazionali del suo spirito. Quei tratti che, per dirla con le intramontabili parole di Orazio Satta Puliga (il responsabile della progettazione di tutte le Alfa dal secondo dopoguerra fino all’Alfetta, ndr), “non possono essere spiegati con una terminologia logica” perché “hanno a che fare più con il cuore che con il cervello”.
FACEVA E FA ANCORA LA DIFFERENZA - In mezzo al fiume di Alfa Romeo Giulia d’epoca che ieri ha pacificamente invaso il pistino del museo disponendosi sul prato fino a comporre a caratteri cubitali la scritta “Giulia 60”, sogni e ricordi diventano come i capi di un elastico invisibile che, ondeggiando sospeso nel tempo, li mescola, rendendo assai difficile distinguere la leggenda dalla realtà. Ma per quanto incredibile e straordinaria, la storia dell’Alfa Romeo Giulia è tutta vera. E vive. Vive in chi oggi la possiede e la guida. Vive racchiusa in chilometri e chilometri di scaffali nell’archivio aziendale. Vive nei ricordi di chi l’ha vista e l’ha aiutata a nascere e l’ha fatta diventare grande. Come Luciano Colle, una vita all’Alfa, dove è entrato da apprendista nel 1955, fino a diventare responsabile dell’intera progettazione dei motori: “Sulla Giulia migliorammo la meccanica della Giulietta, che era di tipo sportivo, con due alberi a camme in testa. In particolare, i migliori risultati li ottenemmo con il passaggio all’alimentazione singola, assicurata da due carburatori doppio corpo. Un grande lavoro fu fatto nella messa a punto delle parti rotanti del motore, dagli alberi a camme alle bielle. Poi c’erano delle raffinatezze uniche, come la coppa fatta non in lamiera, com’era consuetudine allora, ma in alluminio fuso, per tenere a bada la temperatura dell’olio. Ecco perché, a distanza di sessant’anni, la Giulia si distingue ancora tra le auto stradali e in ambito sportivo”.
UNA CAMPIONESSA DI SICUREZZA… - Ma l’Alfa Romeo Giulia non si distingueva solo per la sua brillantezza di guida e l’esuberanza dei suoi potenti motori bialbero. L’erede della Giulietta era una macchina fuori categoria anche in fatto di sicurezza (un aspetto ancora marginale, all’epoca, nella progettazione di un’automobile). La scocca, progettata per deformarsi progressivamente, era in grado di assorbire gli urti riducendo di molto l’impatto sugli occupanti che, in seguito al contraccolpo, avrebbero inoltre subito meno danni meno gravi grazie a un cruscotto realizzato per la prima volta con materiali morbidi. La scatola guida, poi, era del tipo arretrato: in queso modo, in caso d’incidente, il piantone dello sterzo non si staccava, evitando il rischio di pericolose ferite per il conducente.
… E DI AERODINAMICA - Altro punto di vanto dell’Alfa Romeo Giulia è la sua efficienza aerodinamica, letteralmente eccezionale per i suoi tempi. Con un coefficiente di penetrazione di appena 0,34 (giusto per rendere l’idea, una supercar come la Ferrari 250 GTO, all’epoca, si fermava a 0,42), la nuova berlina del Biscione fendeva il vento senza sforzo. Merito di un lavoro “scientifico” da parte degli uomini del Centro Stile e del reparto carrozzeria, che per la prima volta poterono beneficiare delle preziose indicazioni suggerite dai test svolti nella galleria del vento del Politecnico di Torino. “L’ha disegnata il vento”, insomma, non era solo uno slogan pubblicitario: la scalfatura che “gira” tutt’intorno all’auto (dal muso ai fianchi fino alla coda, tronca per ridurre le turbolenze), così come il parabrezza avvolgente, realizzato con una doppia curvatura del vetro, erano il risultato di uno studio senza precedenti.
FORGIATA DA VERI ARTISTI DEL VOLANTE - Come tutte le automobili che hanno fatto grande l’Alfa Romeo e oggi ne tengono in vita il mito, l’Alfa Romeo Giulia è anche frutto di un lavoro di cesello da parte dei collaudatori della casa milanese. Tra gli oltre 80 chilometri di asfalto e ghiaia della pista prove di Balocco, nata praticamente insieme alla Giulia e da allora insostituibile palestra per la gestazione di intere generazioni di Biscioni, è come se l’auto avesse assorbito ogni singola sfumatura della proverbiale sensibilità con cui quegli straordinari piloti riuscivano a penetrare nelle pieghe più nascoste della meccanica. Il più anziano vivente di quella squadra di artisti del volante, capitanata dal grande Consalvo Sanesi, risponde al nome di Luigi Croci e, dall’alto dei suoi 86 anni, pensa e parla svelto come ha guidato per una vita: “La Giulia fu una vera genialata e chi all’inizio la criticò per il suo stile fuori dagli schemi dovette ben presto ricredersi, perché quella macchina era davvero la fine del mondo. L’Alfa Romeo, per noi che ci lavoravamo, era come una seconda famiglia: stavamo via di casa intere settimane, a volte mesi, in inverno sulle strade innevate della Svezia, d’estate nel deserto del Marocco. I primi test con i prototipi li effettuammo nella ex Jugoslavia, le carrozzeria erano costruite dalla tedesca Karmann. A deliberare il progetto fu Sanesi, che come sempre riuscì a trovare il giusto compromesso tra comfort e tenuta di strada. Posso assicurare che non è una cosa semplice, perché, come dico io, nella vita o si succhia o si soffia. Ma con lui era diverso. Aveva una sensibilità che non finiva più…”.