NEWS

I dazi rischiano di bloccare la produzione di auto anche negli USA

Pubblicato 03 febbraio 2025

Secondo gli addetti ai lavori, la nuove tariffe del 25% applicate dagli USA ai prodotti canadesi e messicani metteranno in difficoltà anche la produzione statunitense.

I dazi rischiano di bloccare la produzione di auto anche negli USA

LA PRODUZIONE SI FERMERÀ? - La questione dazi, che gli Stati Uniti imporranno sui beni provenienti da Canada e Messico (ma stando a quanto promesso arriveranno presto anche nei confronti di quelli europei), sta tenendo con il fiato sospeso tutto il settore automobilistico mondiale. Le nuove tariffe entreranno in vigore da domani, passando dal 10 al 25%, e secondo molti analisti rischiano di bloccare la produzione di auto e di componenti non solo in Canada e in Messico, ma anche all’interno degli Stati Uniti stessi. “Chi si farà carico dei margini ridotti?”, si chiedono gli addetti al settore, prospettando una decisione drastica nel giro di una settimana: fermare le linee di produzione, con un conseguente rapido azzeramento del lavoro anche per l’intera filiera produttiva, compresa quella statunitense. 

AUMENTERANNO I PREZZI - I dazi “avranno immediati impatti negativi sui posti di lavoro e sui consumatori”, ha detto David Adams, ceo della Global Automakers of Canada, che rappresenta i marchi d’importazione nel Paese, confermando che i produttori potrebbero trovarsi in una situazione “in cui le opzioni sono relativamente limitate”. In Canada costruiscono veicoli Ford, General Motors, Honda, Stellantis e Toyota. Secondo Brian Kingston, ceo della Canadian Vehicle Manufacturers’ Association, i dazi ridurranno la produzione di veicoli in tutto il Nord America, aumentando i prezzi e causando perdite di posti di lavoro negli stabilimenti in tutto il continente. 

PERDITA DI COMPETITIVITÀ - Spostandosi verso sud, è il Gruppo Volkswagen tra i più preoccupati per i nuovi dazi sulla produzione del Messico: qui il costruttore tedesco ha uno dei suoi più grandi stabilimenti, a Puebla, dove nel 2023 sono state prodotte circa 350.000 vetture destinate all’esportazione negli USA. “Stiamo valutando tutti i potenziali effetti sull’industria automobilistica e sulla nostra azienda”, ha fatto sapere la Volkswagen con un comunicato. Dall’analisi della banca d’investimento Stifel, i dazi renderebbero non più competitive il 65% delle auto prodotte dal gruppo Volkswagen negli Stati Uniti, con pesanti ripercussioni anche sui posti di lavoro in Germania e in Europa. 



Aggiungi un commento
Ritratto di Quello la
3 febbraio 2025 - 14:56
Questa strategia dei dazi mi sfugge. Qualcuno sa spiegarmela meglio? Ok che autarchia = più posti di lavoro (forse, perché se produco a prezzi più alti poi chi compra?) Ma nel medio periodo le cose potrebbero precipitare. Lo chiedo al di là delle questioni politiche, che vorrei evitare in questa sede (Trump brutto e cattivo o salvatore della patria), ma proprio per capire quale sarebbe la finalità e se questa sia raggiungibile con questo mezzo.
Ritratto di giocchan
3 febbraio 2025 - 18:43
L'idea è di rilanciare le industrie interne. Il problema è che una fabbrica non si costruisce in due giorni, qualche anno ci vuole... nel frattempo, in pochissimo tempo, aumenterà l'inflazione... A MENO CHE, il consumatore non compri, alla stessa cifra, beni made-in-USA, improvvisamente diventati competitivi. Ovvero: se la BMW messicana costa troppo, alla stessa cifra mi compro la Chevrolet prodotta internamente... (più o meno quello che facciamo in Italia comprando Panda e Sandero, mentre ieri con lo stesso numero di stipendi compravamo una Golf...)
Ritratto di ilariovs
3 febbraio 2025 - 15:00
Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Ci saranno tanti che in buona fede pensavano che con la bacchetta magica "male america great again". Purtroppo la realtà è piú articolata dei comizi elettorali.
Ritratto di probus78
3 febbraio 2025 - 15:22
Gli Usa hanno una bilancia commerciale negativa con Cina, Canada, Messico e UE: importano molto più di quanto esportano. I dazi, quindi, pur danneggiando tutti nel complesso, danneggiano di meno gli Usa. Anche se UE risponderà, potrà tassare meno merci rispetto a quelle tassate da Trump. Sono i conti della serva, semplici semplici.
Ritratto di Gordo88
3 febbraio 2025 - 18:06
1
+1
Ritratto di simo1888
3 febbraio 2025 - 15:26
Hanno eletto un farabutto, devono aspettarsi una mentalità mafiosa
Ritratto di Byron59
3 febbraio 2025 - 15:28
E alla fine ci siamo. I dazi tanto annunciati, e temuti, stanno arrivando. Il successo elettorale di Trump e la composizione della sua squadra hanno aperto un varco nello strapotere delle “Big Three” – BlackRock, Vanguard e State Street – e rendono assai più critica l’idea di un’Europa che campa delle esportazioni verso gli Stati Uniti (dopo essersi giocata la Russia al risiko ucraino). In questa prospettiva, i tre decenni di vacche grasse della Germania sono oramai un ricordo e i vertici della finanza europea paiono intenzionati a reagire e dare corpo almeno a un pezzo del “progetto Draghi”, non a caso immaginato come possibile sostituto presidente della commissione europea in caso di eccessiva debolezza della Von der Leyen. Prima l’allarme lanciato dalla Bce sulla possibile bolla, sul punto di esplodere, generata dall’eccessiva concentrazione del valore azionario delle Borse americane, poi l’insistenza, sempre a opera di madama Lagarde, sull’urgenza di creare un mercato unico dei capitali europei, superando l’attuale frammentazione sono segnali che paiono muoversi in tale direzione. L’obiettivo di queste mosse infatti è quella di evitare la costante trasmigrazione dei 33 mila miliardi di euro di risparmio europeo verso i titoli degli Stati Uniti. Il messaggio di Lagarde è chiaro: i colossi del risparmio gestito Usa dovranno fare i conti, dopo anni, con un governo non troppo amico, e quindi saranno più deboli, meno in grado di garantire super dividendi, come del resto sta dimostrando il caso Nvidia, a cui sembra svanita la patina di imbattibilità. La società quotata con la maggiore capitalizzazione al mondo, infatti, ha presentato la terza trimestrale 2024 con risultati record; i profitti sono raddoppiati, arrivando a 19,3 miliardi di dollari e il giro d’affari è cresciuto del 94 per cento superando i 35 miliardi. Nonostante questo, il titolo Nvidia ha perso valore, segnando un chiaro rallentamento rispetto a una corsa che sembrava inarrestabile. Forse la guerra interna al capitalismo finanziario USA sta facendosi sentire e non bastano neppure gli ottimi risultati della società dell’Intelligenza artificiale a sostenerne il titolo. L’asse si sta spostando verso i Bitcoin, verso il private equity e verso gli hedge, insomma verso l’universo di Trump, di Vance e dei nuovi ‘ministri’. Il dominio dei bitcoin e delle criptovalute sembra davvero l’obbiettivo di Trump che ha nominato David Sacks, proveniente da PayPal, dove ha lavorato insieme a Peter Thiel (oggi a capo della famigerata Palantir) e a Elon Musk, e cofondatore della società di venture capital Craft ventures, “zar” dell’intelligenza artificiale e, appunto, delle criptovalute. L’intento è quello di rendere questo settore il cuore della finanza a stelle e strisce, scalzando le posizioni di rendita, nel caso dell’Intelligenza artificiale, di colossi proprio come Nvidia, legati alle Big Three. Insieme a Paul Atkins alla Sec, Sacks avrà il compito e la prerogativa di conquistare definitivamente un terreno finanziario su cui né la Cina né tantomeno l’europa sono in grado di essere competitive. Forse Trump pensa a un ambito nel quale non pesino i dazi e neppure la liquidità dei superfondi. Dunque, i risparmiatori europei dovrebbero affidare le loro risorse a “campioni” del Vecchio Continente, magari rafforzando i monopoli già esistenti, ai quali dovrebbe essere messo a disposizione un mercato unico e senza troppi vicoli così da costruire una vera e propria “industria” della finanza europea. A queste scelte in direzione della finanziarizzazione europea dovrebbe contribuire la difficoltà in cui potrebbe incorrere la già ricordata vocazione all’esportazione verso gli Stati Uniti che potrebbe essere “sostituita” nella logica Lagarde-Draghi- Von der Leyen da una finanziarizzazione dell’economia europea – più risorse gestite in termini finanziari – e dalla “rinascita” di una manifattura bellica europea e dell’innovazione tecnologica, finanziata proprio dalla mobilitazione del risparmio europeo. L’impressione è che la “nuova” maggioranza che sostiene la commissione Von der Leyen si muova in tale direzione: smontare la spesa sociale degli Stati, trasformare il maggior numero di cittadini e cittadine in “clienti”, pressoché obbligati” dei grandi fondi e procedere all'”europeizzazione” di tale risparmio, sfruttando possibili debolezze americane e anticipando gli effetti dei dazi di Trump. Naturalmente allo stesso scopo sono orientate le regole di bilancio dell’austerità e il rifiuto di un debito comune finanziato dalla Bce. La vittoria di Trump diventa così l’occasione per un’europa ancora più dominata dalla finanza e ancora meno sociale. Alla destra Usa l’europa di Lagarde, Draghi e Von der Leyen risponde con una destra che vuole vincere la guerra finanziaria. Peraltro Lagarde, in termini commerciali, sembra meno “dura” nei confronti della potenza d’Oltreoceano, arrivando a esprimere dichiarazioni che ormai superano ogni immaginazione. La presidente della Bce, infatti, per scongiurare gli imminenti dazi di Trump ha esortato gli europei a “comprare americano”, in maniera da riequilibrare la bilancia commerciale con gli Stati Uniti. Ha affermato, con perentoria convinzione che la strada da seguire è questa perché le “guerre commerciali” sono sbagliate. Lagarde non ha specificato cosa comprare, quanto ciò possa incidere sull’inflazione e quanto pesi sulle filiere produttive del Vecchio Continente; si è limitata allo slogan “buy American“. Del resto, simili estemporaneità sono lo specchio di un’Europa dove le politiche monetarie stanno facendo solo danni e ora, in maniera incredibile, rischiano persino di indebolire l’euro senza toccare troppo i tassi d’interesse al ribasso, minacciando una guerra finanziaria e, al contempo, auspicando una incomprensibile sottomissione commerciale. Certo non è un caso, in questo contesto, che le Big Three stiano muovendosi in una duplice direzione. La prima è quella di orientarsi sempre più verso settori “sicuri”, a cominciare dalla sanità. Le assicurazioni sanitarie che “gestiscono il mercato della salute” sono una decina circa: United Healthcare, Elevance Health, Centene, WellCare, Humana Inc., Cigna, Progyny, Alignment Healthcare. Cosa hanno in comune? Hanno, praticamente tutte, come azionisti principali Vanguard, BlackRock, State Street, che ne detengono partecipazioni azionarie intorno al 20-25%. Quindi, la sanità Usa è in mano delle Big Three che devono ottenere da tale settore rendimenti in grado di remunerare i propri azionisti e soprattutto i propri risparmiatori. Il suo valore non dipende così dall’efficacia delle cure ma dal prezzo dei titoli azionari delle stesse assicurazioni che salgono ogni volta che tali società riducono i costi e, dunque, non somministrano trattamenti che siano troppo onerosi. Solo così le Big Three, e i risparmiatori che ci hanno messo i soldi guadagnano. Finanziarizzare la sanità significa che il risparmiatore che si affida a United Healthcare per le proprie future malattie entra in conflitto, e perde, con la massa dei risparmiatori che si sono affidati attraverso altre strade a Vanguard, BlackRock e State Street, o, secondo un calcolo cinico, sono meno costosi. Vale la pena ricordare che le stesse Big Three sono anche le azioniste di riferimento ai grandi studi legali a cui si devono rivolgere i pazienti ai quali l’assicurazione non paga la cura. In pratica, esiste una sola catena di controllo, totalmente finanziarizzata, che comprende le assicurazioni sanitarie e i grandi studi legali che difendono sia le assicurazioni stesse sia i pazienti. Naturalmente le medesime Big Three sono anche le azioniste principali delle banche che concedono prestiti agli americani per farsi le assicurazioni sanitarie, dal momento che hanno il 25-30% della proprietà azionaria del sistema bancario a stelle e strisce. In tale ottica, BlackRock ha annunciato di aver acquistato HPS Investment Partners, leader globale nel credito privato con circa 150 miliardi di dollari in gestione. In pratica, oltre a essere azionista di Jp Morgan e di gran parte delle principali banche mondiali, la società guidata da Larry Fink ha deciso di dotarsi di uno strumento “diretto” in grado di agire nel settore del credito privato, occupando nuovi spazi di monopolio non solo in termini di gestione del risparmio ma ora anche del credito “diretto”. La seconda direzione è invece proprio quella di contrastare il disegno di finanziarizzazione europea. In tale ottica, l’assalto di Unicredit al sistema bancario europeo non ha davvero nulla di “italiano”, ma rappresenta una parte rilevante dell’offensiva dei grandi fondi Usa. L’azionista principale di Unicredit, ormai con oltre il 7%, è BlackRock, a cui sono legati altri fondi presenti nella compagine sociale di Unicredit: peraltro, nel complesso, il capitale “italiano” della banca arriva a mala pena al 6%. La scalata, fatta in larga prevalenza con strumenti derivati, a Commerzbank, di cui Unicredit ha in mano ora quasi il 30%, la soglia per il lancio di un Opa, e che ha provocato l’irritazione del governo germanico, è quindi l’espressione di una volontà delle Big Three di impossessarsi del risparmio europeo. Nella stessa logica si è posta l’Offerta pubblica di scambio operata sempre da Unicredit verso Bpm; evitare che si formi un altro “colosso” bancario con la presenza del grande avversario dei fondi Usa costituito da Credit Agricole. La mossa di Credit Agricole di superare il 15% di Bpm, chiedendo alla Bce un’autorizzazione per salire al 19,99%, ha come obiettivo, oltre alla volontà di rendere complessa e costosa proprio l’azione di Unicredit, quello di impossessarsi di Anima, la società di gestione del risparmio con 200 miliardi di attivi. In tal modo, l’istituto francese, rafforzerebbe sensibilmente la propria posizione: Amundi, di cui Credit Agricole è azionista di controllo, ha infatti comprato da Unicredit la società del risparmio gestito Pioneer, battendo la concorrenza di Poste. Lo stesso Credit Agricole, inoltre, insieme a Bnp Paribas, sono fra i principali attori italiani del credito al consumo, con Findomestic e Agos Ducato. Risulta palmare, quindi, che BlackRock, nel suo intento di monopolizzare il risparmio, si muova per bloccare in primis i francesi e per acquisire il controllo del mercato tedesco. In tutto questo la politica sembra rimanere totalmente inerme impegnata a gestire inezie e il racconto giornalistico, almeno quello nostrano, pare voler trascurare la reale natura di simili operazioni, anzi non se ne occupa proprio, pensando a Roccaraso o ai quaranta immigrati in Albania o al farlocco avviso di garanzia alla presidente del consiglio. Nel frattempo, è bene ricordare che i “clienti” europei di BlackRock sono diventati, nel 2024, 113 milioni, con un incremento ampiamente superiore ai 3 milioni in Inghilterra, in Francia e in Germania. In italia, dove i clienti sono 15 milioni, Black Rock ha venduto Etf a oltre 2,2 milioni di italiani. In questo senso l’attività di BlackRock pare davvero instancabile. Nei giorni scorsi, non a caso, ha annunciato di aver acquistato HPS Investment Partners, leader globale nel credito privato con circa 150 miliardi di dollari in gestione. In pratica, oltre ad essere azionista di Jp Morgan e di gran parte delle principali banche mondiali, la società guidata da Larry Fink ha deciso di dotarsi di uno strumento “diretto” in grado di agire nel settore del credito privato, occupando nuovi spazi di monopolio non solo in termini di gestione del risparmio ma ora anche del credito. E’ significativo rilevare che nelle proprie infografiche BlackRock sottolinei come il principale limite alla sua diffusione in italia sia rappresentato dalla “percezione” che gli italiani hanno della loro situazione patrimoniale, ritenuta, ingiustamente, troppo povera per accedere all’investimento finanziario. Per BlackRock, gli italiani non sono poveri, si “sentono” poveri e quindi non comprano Etf. Ma allora bisogna alimentare con tutti i mezzi una vera e propria trasformazione culturale, dalla pubblicità, alle consulenze fino alla stessa attività normativa del governo, per convincere gli italiani che sono ricchi e hanno tutte le possibilità per “finanziarizzarsi” come già hanno fatto gli americani. Il 2025 dunque potrebbe essere caratterizzato da almeno tre grandi incognite, al di là delle variabili geopolitiche legate ai sempre più numerosi e imprevedibili conflitti in atto. La prima è sicuramente costituita dalla politica economica e finanziaria dell’amministrazione Trump. La sua squadra è caratterizzata infatti da grandi fautori delle criptovalute: il segretario al commercio Lutnick, il segretario al Tesoro Bessent, il presidente della Sec, Paul Atkins, non solo sostengono l’opportunità di fare degli Stati Uniti la terra delle criptovalute, in grado di generare al tempo stesso formidabili occasioni di investimento e una nuova strategia monetaria meno legata alla centralità tradizionale del dollaro, ma sono coinvolti personalmente in società che si occupano di tali strumenti. Un simile coinvolgimento potrebbe determinare uno storico cambio di rotta delle autorità USA verso un settore da sempre avversato dalla Banca centrale americana e aprire una stagione in cui le criptovalute potrebbero rappresentare una testa di ponte degli Stati Uniti nei confronti di paesi industrialmente più forti a cui proporre una sorta di moneta condivisa sotto l’egida americana. In questo senso, forse, bisognerà leggere anche la politica daziaria degli Stati Uniti: Trump ha minacciato dazi in ogni direzione e alcuni li ha già messi inatto per ridurre il gigantesco disavanzo commerciale a stelle e strisce, ma è probabile che l’applicazione di un duro protezionismo verso la Cina sarà assai difficile data la centralità dei prodotti cinesi nel contenere l’inflazione americana e considerata l’ancora insostituibile funzione del dollaro per la tenuta del debito americano. In tale ottica, Trump potrebbe rinunciare almeno a una parte dei dazi cinesi e rendere meno vitale la dollarizzazione con un “compromesso” con la Cina a cui limitare i dazi e offrire un terreno comune di natura valutaria, in grado di riconoscere in termini finanziari la nuova superpotenza, chiedendo in cambio di allentare la presa su Taiwan, indispensabile luogo di produzione delle big tech americane. La seconda variabile riguarda proprio la Cina che potrebbe decidere di accorciare i tempi della dipendenza dalla moneta americana non seguendo le strategie trumpiane, tanto più se tali politiche si traducessero in un effettivo aumento dei dazi, e intensificando ulteriormente invece i rapporti con i pur diversissimi Brics, accomunati dalla volontà di non destinare proprio attraverso il dollaro una parte dei propri profitti all’economia americana. Pechino potrebbe puntare a una piattaforma di pagamenti digitali con i paesi emergenti e lasciare il dollaro al proprio destino con conseguenze pesantissime per l’economia americana. In questo senso, il 2025 potrebbe essere l’anno del grande compromesso tra le due principali potenze mondiali o quello dello scontro decisivo. Infine, la terza variabile riguarda l’europa che parrebbe intenzionata, secondo le linee del Rapporto Draghi e della Commissione Von der Leyen, a rivendicare un proprio spazio finanziario nel contesto globale, riducendo il monopolio dei super fondi americani per creare colossi europei in grado di trattenere nel Vecchio Continente i 33 mila miliardi di risparmio qui presenti. Si tratta di un’operazione molto difficile, di cui si vedono già alcune grandi manovre nel settore bancario e in quello assicurativo, ma che sconta la debolezza politica dei paesi economicamente più forti e soprattutto pare condizionata dalla decisione di madame Lagarde di non voler fare ricorso all’indispensabile utilizzo della Bce come strumento di finanziamento del debito, necessario a incentivare i settori verso cui indirizzare poi il risparmio “autoctono”. Tre variabili, dunque, che prospettano scenari decisamente differenti a seconda del modo in cui verranno declinate, ma, assai probabilmente, destinate a scomporre la situazione attuale, uscita dalla presidenza Trump e da un’europa totalmente arrendevole. Se la partita dei dazi è appena all'inizio sembra che l'amministrazione americana abbia strizzato un occhio (di riguardo) alla Cina imponendo per ora dazi più bassi che a Canada e Messico. Con l'europa la partita è in apparenza più complessa.
Ritratto di fabrizio GT
3 febbraio 2025 - 18:52
Cavolo... Grazie Byron, per aver scritto questo post, ci ho messo 15 minuti per digerirlo!!!! :-))) Ottimi spunti per una riflessione!
Ritratto di Ilmarchesino
3 febbraio 2025 - 19:14
3
A quando la ristampa di questo monologo??
Ritratto di Flynn
3 febbraio 2025 - 17:53
2
Mha vedremo... Comunque sono abbastanza convinto che a una certa meglio che la gente si ritiri in pensione e dia spazio ai giovani. Ma poi l'America delle opportunità che passa da un presidente cariatide all'altro .. Bha!
Ritratto di Sdraio
3 febbraio 2025 - 18:10
mmmm come dire una cosa dubbia dandola per certa rivoltando la frittata... non ho parole...
Ritratto di lovedrive
3 febbraio 2025 - 18:19
perchè i dazi dovrebbero bloccare la produzione in america? prenderanno i componenti prodotti negli usa e cosi aumenta anche l'industria americana, obbietivo di trump.
Ritratto di giocchan
3 febbraio 2025 - 18:40
La prima conseguenza dei Trump-dazi: aumentano i prezzi delle automobili (e anche di taaaanta altra roba), aumenta l'inflazione. PS: cmnq sentire la UE lamentarsi per gli "ingiusti dazi" di Trump appena poche settimane dopo averne varati di assurdi contro le auto made-in-china fa veramente ridere...
Ritratto di Ilmarchesino
3 febbraio 2025 - 19:17
3
L america può fare a meno del Europa, invece l Europa nn può fare a meno degli Usa.. il gas dice lo prendiamo?? Niente Russia grazie a biden e nn per colpa di Trump.. Petrolio?? La Norvegia ne è piena ma nn lo usa perché bisogna essere green