TEMA SCOTTANTE - A pochi giorni dal referendum per i lavoratori dello stabilimento di Mirafiori, che ha visto prevalere il sì di stretta misura grazie in larga misura al voto degli impiegati dello stabilimento torinese, Sergio Marchionne ha rilasciato a Ezio Mauro, direttore del quotidiano la Repubblica, un'intervista nella quale fa un primo bilancio del risultato ottenuto e rilancia la sua sfida di creare una “nuova Fiat”. Nella lunga intervista, l'amministratore delegato è stato più volte incalzato su quello che è sicuramente l'argomento più scottante: il risultato ottenuto nel referendum per il progetto di rilancio di Mirafiori. Un risultato che lo stesso Marchionne non aveva dato per scontato (tanto da aver preparato due comunicati stampa: uno se prevaleva il sì, l'altro se vinceva il no) e che non avrebbe offerto alternative: se fosse passato il no, la Fiat avrebbe deciso di investire altrove. Perché, come ha precisato Marchionne, “questo contratto c'è già a Pomigliano, e io non posso avere due sistemi diversi per la stessa azienda e lo stesso lavoro” e verrà successivamente esteso anche per gli stabilimenti di Cassino e Melfi: “Non c'è alternativa. Non possiamo vivere in due mondi”.
DI VITTORIA SI TRATTA - Un risultato, il sì al referendum, che Marchionne difende a spada tratta anche quando Ezio Mauro gli fa notare che, senza il consenso degli impiegati sarebbe passato per soli 9 voti: tra gli operai dei reparti Montaggio e Lastratura, quelli direttamente coinvolti dalle nuove regole ha vinto il no. “Sabato mattina alle sei le urne hanno detto che il sì ha avuto la maggioranza. Il discorso è chiuso. Il referendum non l'ho chiamato io (anche se avrei partecipato volentieri, spiegando ai lavoratori le ragioni dell'accordo) né sono io che ho fatto le regole. Per me Mirafiori ha deciso, e io sto al risultato, che è un risultato molto importante” ha detto Marchionne.
SI AMMETTONO DEGLI ERRORI - Nella vicenda, però, l'amministratore delegato della Fiat dice di aver commesso un errore: “ho sottovalutato l'impatto mediatico di questa partita, ho sottovalutato un sindacato (la Fiom) che aveva obiettivi politici e non di rappresentanza di un interesse specifico, come invece accade negli Usa. Io sono convinto che le nostre ragioni sono ottime. Ma non sono riuscito a farle diventare ragioni di tutti. Mi sembrava chiaro: io lavoratore posso fare di più se mi impegno di più, guadagnando di più. E invece ha preso spazio la tesi opposta, l'entitlement, e cioè il diritto semplicemente ad avere, senza condividere il rischio. Ma questo va bene per uno statale, non per un'azienda privata che deve lottare sul mercato”. Un errore che apre a un'ulteriore missione per Marchionne: “ci sono due voti che mi preoccupano: quello di chi ha votato no su informazioni sbagliate e quello di chi ha votato sì per paura. Voglio convincerli, spiegare chi sono. È impossibile che negli Usa dicano che gli ho salvato la pelle e qui la pelle vogliano farmela”.
È MANCATA LA COMUNICAZIONE - Marchionne ha precisato che il suo obiettivo non era quello di rompere con i sindacati italiani, ma quel “sistema ingessato, dove tutti sanno che noi imprese italiane siamo fuori dalla competitività, non possiamo farcela, eppure tutti fanno finta di niente. Evidentemente non sono riuscito a far capire certe cose alla mia gente”. D'altra parte, come gli fa notare il giornalista de la Repubblica, ad essere lesa è stata proprio la sua immagine, quella di un imprenditore che nel 2004 ha risollevato la Fiat ma che oggi viene descritto più come canadese che non italiano, e per niente interessato alla Fiat in Italia. Accuse che Marchionne rigetta prontamente: “questa è la cosa che mi fa incazzare di più. 'Manager canadese', è l'ultima di tutta una serie che arriva a dipingermi addirittura come anti-italiano, pur di minare la mia identità di manager. Io ho il passaporto italiano, esattamente come lei. Rispetto lo Stato, il Paese e soprattutto i lavoratori, perché credo sia giusto. Non ho mai fatto un investimento di così pessima qualità per l'azienda come quelli di Mirafiori e di Pomigliano. Vuol dire crederci, questo, o che altro?” Una dichiarazione seguita da una spiegazione: il pessimo investimento è riferito al fatto che in Serbia e in Brasile la Fiat ha avuto il pieno appoggio finanziario dei governi per l'avvio della produzione di nuovi modelli, mentre in Polonia il sindacato, alla notizia che la produzione della Panda sarebbe stata spostata a Pomigliano, ha rilanciato con la disponibilità degli operai di fare il terzo turno.
LEGATI ALL'ITALIA - A voler sottolineare il suo attaccamento alle fabbriche italiane della Fiat è lo stesso Marchionne: “mi ricordo i primi 60 giorni dopo che ero arrivato qui, nel 2004: giravo tutti gli stabilimenti, e poi quando tornavo a Torino il sabato e la domenica andavo a Mirafiori, senza nessuno, per vedere quel che volevo io, le docce, gli spogliatoi, la mensa, i cessi. Cose obbrobriose. Ho cambiato tutto: come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai e a farli vivere in uno stabilimento così degradato? In più, la Fiat era tecnicamente fallita, se il fallimento significa non avere i soldi in casa per pagare i debiti. Perdevamo 2 milioni al giorno, non so se mi spiego. E invece sette anni dopo abbiamo ribaltato lo schema, l'animale è vivo, il patto che associa Fiat e lavoratori è vitale e va al di là del contratto in questione. C'era prima di me e oggi sappiamo che ci sarà dopo di me. Anzi tutta questa personalizzazione è fuorviante. Perché se Marchionne fosse il problema, basterebbe poco. Ma tolto Marchionne, il problema resta”. Un attaccamento all'Italia che riguarda anche la famiglia Agnelli e che, secondo Marchionne, non viene meno neanche oggi: “Io non ho mai conosciuto l'Avvocato ma mi sono letto per bene la storia della Fiat. E dico che se c'è un momento in cui la famiglia fa le cose giuste è proprio questo. Hanno varato l'aumento di capitale nel 2003 quando l'azienda era morta, l'hanno salvata con soldi propri, non dello Stato. E oggi stanno cercando di darle un futuro senza mettere i piedi nella gestione politica del Paese, ma restandone ben fuori”.
L'ALFA NON SI TOCCA - A questo punto l'intervista si sposta sui prodotti e su come la Fiat prevede di recuperare il terreno perso: nel 2010 ha visto le sue immatricolazioni in Italia e in Europa e perdere quote di mercato. “Staccata la spina degli incentivi, il mercato va giù. Lo sapevamo - ha detto Marchionne. Aspettiamo che si svuoti il tubo, nella seconda metà del 2011, e vediamo. Per quel momento avremo la nuova Ypsilon e la nuova Panda. Sta arrivando tutta la gamma Lancia, rifatta con gli americani, la Giulietta è appena uscita, la Jeep verrà prodotta qui in 280 mila esemplari all'anno, per tutto il mondo. E grazie a Chrysler, l'Alfa arriverà in America, con una rete di 2 mila concessionari, e farà il botto”. A proposito dei nuovi modelli, Marchionne ha precisato che il marchio del Biscione non è in vendita: “fossi matto, è roba nostra” ha detto, né darà via i mezzi industriali: “manco di notte”.
CUORE ITALIANO - Un progetto che se andrà in porto avrà come conseguenza quella di portare i lavoratori alla partecipazione degli utili dell'azienda: “sì, e le dico che ci arriveremo. Voglio arrivarci. Ma prima di parteciparli, gli utili dobbiamo farli” ha detto Marchionne. Il quale ha chiuso l'intervista ribadendo il concetto di grande azienda italiana che si affaccia sul mondo: “la Fiat avrà più teste, a Torino, a Detroit, in Brasile, in Turchia, spero in Cina. E un cuore solo. Così rimarranno vive quelle quattro lettere del marchio Fiat. Vediamole. Fabbrica: produciamo ancora, vogliamo produrre di più. Italiana: siamo qui, e non vendiamo nulla. Automobili: resta il cuore del business. Torino: se ha dei dubbi, apra la mia finestra e guardi fuori”.